Dove vivo io, il fatto di non avere trovato un lavoro, a prescindere dalle motivazioni, è sufficiente per cancellare ogni diritto: di parola, di rumore, di emozione ed espressione.
Non solo non posso avere un’opinione, perché non sono a conoscenza dell’ambiente, ma non posso neppure rivelare la mia presenza, a meno che non sia in ambito stretto dei lavori domestici.
Quando minimamente esprimo un’emozione (un semplice sospiro per l’ennesima banale incomprensione), vengo subissata da giudizi lapidari, consigli non richiesti e da frasi come: “Dovresti cercarti un lavoro.” e anche meglio, come: “Io posso dire e fare tutto, perché sono il Signore e sono senza colpa”. Letteralmente.
Mi si dice, dunque, in faccia, che dato che non sono capace di trovarmi qualcosa che possa fare per guadagnare, non ho diritto neppure di sospirare, né di mostrare ira, seccatura, fatica o un altro sentimento negativo.
Eppure sono io quella che mentre tutti guardavano le videocassette, stavo a morire sui libri. Io che mentre gli altri facevano baldoria in cucina, stavo a studiare, non facendo neppure un appunto al fatto che il loro vociare mi disturbasse… perché so essere paziente, e forse soprattutto perché ascoltare delle voci separate da me da una parete era l’unico modo per avere della compagnia, senza che il mio piano di studio e lavoro fosse compromesso.
In effetti ho visto sempre la gente come un ostacolo: quando credevo di poter avere un obbiettivo ed un sogno, sapendo che le festicciole e le baraonde mi annoiavano ed erano solo una perdita di tempo, facilmente mettevo alla porta la voglia di compagnia. E non sono stata mai ostacolata su questo, è stato anzi estremamente facile essere lasciata sola.
Ne approfittavo per studiare e approfondire le altre mie passioni, per cui non avevo trovato un maestro valido che fosse uno.
Tralasciando i pesantissimi anni della scuola, dalla prima media alla fine del Liceo, l’università mi è costata quella che tutti decantano come la migliore giovinezza.
Ho puntato tutto sulle mie capacità individuali; ho puntato tutto su quel sogno, e ho fatto una scommessa… perché in effetti non vedevo altre strade.
Ora che la scommessa è persa e che tutti gli anni di studio devono essere mandati al riciclo, come se non fossero mai esistiti, mi ritrovo ad aver faticato e lottato per niente.
Ed ora mi devo anche sentir dire che devo cercarmi un lavoro, per farmi trattare meglio.
Ma certo. Ci credo proprio. Quando anche lo trovassi, sono certa che il mio trattamento non cambierebbe di molto. Tutta la fatica fatta finora è stata inutile, figuriamoci ad aggiungerne altra. Sai che vantaggio!
Non ho un’identità, non so che cosa sono, ho paura di mettermi in gioco, perché ogni volta che l’ho fatto posto per me non ce n’era.
Che stia tutto il tempo a lavare il piano della cucina, a stendere i panni e a far la lavatrice o a rammendare calzini, è visto come oziare.
E mentre ozio a questo modo, cerco di non perdere almeno le capacità che certamente ho. Ma non so a quale scopo.
Perché sbattersi tanto?
Da molti mesi non faccio che fare brutti pensieri… molto brutti. Purtroppo o per fortuna, anche in quel caso l’iniziativa langue, frenata dall’incertezza, dall’indecisione e dalla paura.
La vita mi diventa a tratti indifferente e anche disgustosa.
Poi prendo un libro o scrivo qualcosa, e allora mi sembra di poter resistere un altro po’.
Dove vado in queste condizioni?
A chi la racconto?
Giudicata da ogni lato, io non riesco a trovare un’opinione che sia mia, se non per faccende di lievissima importanza… che tuttavia possono sempre subire modifiche, poiché, se per iscritto sono logorroica e chilometrica, di persona ascolto sempre ciò che dice il mio prossimo. E anche se sono sciocchezze o lo sembrano, sono sempre pronta a confrontarle con le mie, e, nel caso, rivedere le mie ‘certezze’.
Sono quasi trasparente, eppure mi devo sentire nelle orecchie consigli non richiesti, soluzioni che vengono presentate come mirabolanti, che invece sono delle cretinate assurde oppure critiche feroci o colpi proprio dove fa male…
E, a parziale discolpa di chi mi tratta a questo modo, non so dire se c’è un posto in me dove a toccarlo non fa male.
Da parte mia, se una persona agisce in un certo modo, posso pensare che stia sbagliando. Solo in casi eccezionali gli faccio un appunto: ad esempio se si tratta di cose gravi o di consigli di carattere professionale sui campi che più conosco. Per il resto, la mia opinione su Tizio non cambierà se un giorno si presenta in ufficio con i capelli giallo papero, o se Gaia quella mattina ce l’ha con il mondo intero.
Queste cose, che a me non sono concesse, le lascio fare agli altri. Sono altri i drammi, altri i problemi.
In genere vedo la gente permettersi disinvoltamente comportamenti che io ritengo vere e proprie trasgressioni, mentre per chiunque altro non sono che dettagli che facilmente passano inosservati.
Quando venivo sfruttata dalla mia ‘donatrice di lavoro’, non ho mai notato cambiamenti di trattamento, da nessuna di quelle persone che prima ed ora mi trattano in questo modo arido.
Sono concentrata come un dado da brodo, e se continuiamo così, del brodo non ci sarà che il rimpianto.
Questo dado pieno di sapore, ben presto farà muffa…
Perché io stessa non so che farne.
Tanti anni di studi, e non so ancora che farne di me.
Chi come me non ha il suo posticino nella lobby della cultura, a che santo dovrà mai votarsi?
Non c’è politico, non c’è autorità che sappia chi sono, né ho avuto un maestro che sappia indirizzarmi.
Potrei essere un genio o anche l’ultima scribacchina sulla terra, ma non lo so, non lo posso sapere in un mondo dove il binario giusto è uno ed uno solo.
Così sono sospesa… vago… e cerco di non far sì che il mio cervello scappi, lasciandomi imbambolata a fissare la macchia d’umidità sul muro, per non essere consapevole di una realtà troppo terribile, che non mi vuole e a cui non frega niente di me e di nessun altro da quando sono nata.
Non ho modelli di riferimento per capire che farne di me, e quando ho chiesto aiuto, la risposta era preregistrata o non è arrivata affatto… come se dall’altra parte del computer non ci fossero umani. Se non domandi aiuto, allora sei un egoista, ma se invece chiedi, allora tutti ti diranno che non sai cavartela da te. In entrambi i casi, non ci sono informazioni utili in entrata, né strade da cui prendere ispirazione. Sei solo, senza un posto.
Vorrei sapere con chi devo prendermela per avermi fatto nascere in un mondo tanto stupido e arrogante, in una vita senza futuro che non distingue il bene dal male e che non ha gusto, se non cattivo gusto… vorrei sapere chi devo ringraziare, per dargli la mano… guantata come quella di Freddy Kruger, o con la sorpresa, come quella di Wolverine.
Adesso che sono a spasso, senza né arte né parte (almeno per quello che è l’ambito ufficiale), guardo in maniera differente il mio periodo di lavoro.
E in certo senso sono pure contenta di aver mollato tutto, perché, innanzitutto, non era lavoro.
L’unica cosa positiva era l’orario ridotto: dovevo andare dalle 16.30 fino alle 19.30. In effetti pensavo fosse una situazione temporanea, visto che ero lì soprattutto per imparare. Era comodo, e ne approfittavo ogni volta che potevo.
Purtroppo nell’inesistente contratto c’erano sottointese altre regole: potevo essere chiamata a qualunque ora del giorno e della notte, e nel giro di 15 minuti ero là, pronta;
la paga aveva una scadenza cinquantaseiennale, per cui le 100 euro che arrivavano ogni tanto erano più un insulto che uno stipendio;
le iniziative private e le idee un po’ fuori dei binari erano mortificate alla nascita, ma le regole erano taciute: le regole apparentemente fisse erano volatili e cangianti e fumose come le facce in un sogno, ma poi la testaquadra ero io che non capivo;
l’ambiente era umido e malsano, per cui c’era da coprirsi più a stare dentro che a uscire sotto alla neve, e un paio di volte mi sono beccata l’influenza;
quando mi sono ferita ad un ginocchio, urtando contro lo spigolo di un tavolino basso, e il dolore era talmente tanto che mi sono ritrovata stesa al pavimento, neppure l’ho detto alla principale, e ci ho camminato su per le due settimane che occorrevano alla guarigione… la certezza, o la paura, erano che mi avrebbe dato dell’imbranata, chiudendo lì la questione, per cui non era il caso neanche di aprirla;
ero dovunque occorressi, non mi risparmiavo mai, eppure mi pareva di non fare mai abbastanza, e avevo la penosa sensazione di essere trattata come una specie di handicappata…;
le mie capacità personali venivano del tutto ignorate, e quando mostravo di sapere cavarmela anche con i computer brutalizzati di quell’ufficio, non ci ho trovato chissà che soddisfazione. Era solo quello che dovevo fare, in fondo. Perché volere dei riconoscimenti?
L’ufficio era un disastro: il caos che si vedeva nelle cartelle dei computer si rifletteva nell’archivio cartaceo, ridotto ad uno sfacelo; ogni tanto mi veniva la voglia matta di riordinare tutto, con una mia precisa logica, per rendere tutto il meccanismo molto più rapido ed efficiente. Ma purtroppo il metodo della principale era “ovvio” per lei, cioè non c’era niente di meglio, ed era talmente intuitivo che dovevo essere io a comprenderlo. Intuitivo per lei, ma un disastro nemico di ogni logica per ogni altro che sarebbe passato a collaborare con lei. E ce ne sono stati, oltre me, a susseguirsi e a scappare inorriditi.
Mi sforzavo di fare la raccolta differenziata dei rifiuti, ma sono stata scoraggiata dal farlo, e anzi esortata a gettare tutto insieme nel bidone e poi sversare tutto nel cassonetto, avendo cura di conservare la busta (cosa illegale), e quando un vigile mi vide fare questo (io finsi di non averlo visto), la principale andò da lui e gli mollò una banconota per farlo tacere.
Un’altra volta aveva la necessità di una firma di una persona, ma aveva dimenticato di chiedergliela prima che tornasse a casa, mi pare all’estero, o comunque in un posto difficilmente raggiungibile. Così mi disse di imparare la scrittura di quella persona e di firmare come lei. Infatti non ebbi problemi a padroneggiare quella grafia tonda e fortunatamente molto comune, e firmai io. Come se fosse la cosa più normale del mondo.
Ogni tanto la principale si accorgeva in qualche modo del mio profondo disagio, e invece di capire perché il luogo di lavoro fosse velenifero per me, credeva di poter fare la mammina con me e potersi prendere confidenza, tanto da consigliarmi, per combattere la timidezza, di seguire corsi di burlesque. Una cosa che mi lascia indifferente e che, a propormela, non fa che portarmi imbarazzo.
Questa vicinanza affettata, di mestiere, e questi disgustosi consigli non richiesti, non facevano che acuire il mio sospetto.
Ma contavo che tutto questo sarebbe finito, per poi farmi accedere al mondo vero e proprio del lavoro, tra adulti, con regole precise, istruzioni, incarichi veri e apprezzamento delle scelte nuove.
Niente di tutto questo è accaduto.
L’unica cosa che accadeva era che altre ragazze venivano chiamate a fare lavori di responsabilità, che in pratica mi scavalcavano, appena arrivate. Certamente avevano requisiti validi come faccia tosta e un attestato di laurea molto più serio del mio. Ma questo non rendeva la mia situazione più piacevole, io che mi sentivo al livello del facchino ubriacone che ogni tanto veniva a darci una mano per i lavori pesanti, e che si prendeva disinvoltamente i meriti degli altri.
Così ho lasciato il posto dove stavo; ho cercato di fare dei lavori, ma vendere non è per me, e farmi sfruttare meno che mai. Sono quindi andata di filato ad iscrivermi al collocamento.
Qui, dopo un po’, c’è stato un piccolo corso per cercare personale da formare in fabbrica.
Il test iniziale era ridicolmente facile, tanto che, pur correggendo anche le domande, fui la prima a consegnare tutto. Ma c’era gente che veniva prima di me. Per età, per reddito, per nazionalità, per disabilità e chissà che altro. Così era come se non avessi fatto alcun test.
Essere Italiana e non aver fatto figli in giro o avere una famiglia normale alle spalle, mi rendeva automaticamente inaccettabile.
Per non parlare della reazione a casa, quando ho raccontato di voler diventare un’operaia…
Pensavo sarebbe stata un’ottima notizia fargli sapere che mi stavo dando da fare. Invece i parenti hanno fatto uno show che non mi sarei mai aspettata: una mi mandava i fulmini di Zeus perché, come, io, una laureata di cotanta famiglia, avevo pensato di fare l’operaia!
Un’altra invece rideva, forse perché pensava che fosse tutto uno scherzo, e che non avevo pensato di andare a fabbricare roba in pelle… forse avrebbe preferito che le dicessi di aver provato a battere il marciapiede.
Un altro non ha commentato nulla di nulla.
“Tranquilli,” ho detto “tanto non mi hanno preso!”
Non sono un’operaia. Non sono un’insegnante. Non sono un’impiegata.
Almeno in questa storia c’è qualcuno che è contento.